Spe salvi: l’esempio di Madre Moreta
di Francesco Paolo Barbato
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La storia di una suora africana sopravvissuta alla tratta degli esseri umani, attiva per 45 anni in Italia e proclamata santa da papa Giovanni Paolo II il 1° ottobre 2000.
“Mediante la conoscenza della speranza lei era redenta, non si sentiva più schiava ma libera figlia di Dio”. Papa Benedetto XVI scrive così di Giuseppina Bakhita nella Lettera Enciclica “Spe salvi” in “La fede è speranza” del 30 novembre del 2007.
Bakhita fu beatificata nel 1992 e proclamata santa nel 2000 dopo un lungo processo di canonizzazione che nel 1978 aveva portato Giovanni Paolo II a decretarne l’eroicità della virtù.
È la storia di una donna, nata in Sudan nel 1869, e abbandonata dai suoi genitori per via della tratta degli schiavi. A soli otto anni è rapita da mercanti arabi di schiavi. È un momento tragico per la vita della piccola Giuseppina che, solo dopo pochi anni dalla sua nascita, viene privata di sé stessa: non ha più un nome, lo ha dimenticato. Giuseppina deve iniziare un altro capitolo della sua storia, che la vede come cosa data e venduta sul grande mercato dei “servi negri”. I numerosi Signori per cui Giuseppina lavora e dai quali viene ripetutamente torturata, le frustano l’anima con una sola e sprezzante convinzione: “Se il destino ti ha fatto nascere sola, sei nata per essere schiava”.
Per dodici lunghissimi anni viene acquistata e venduta diverse volte, ricevendo tormenti fisici e psicologici che solo chi li ha vissuti sarebbe in grado di raccontare. La sofferenza, il dolore e la rassegnata quotidianità di Bakhita sono interrotte da colui che poi l’ha condotta a conoscere il sapore della libertà.
Il console italiano Callisto Legnani la compra sul mercato per poco danaro e decide di portarla con sé in Italia, dove avrebbe dovuto crescere i figli della famiglia Michieli, in ottimi rapporti con i Legnani e che la accoglie in casa trattandola con affetto.
Giuseppina avverte che il suo percorso di vita era sul punto di abbandonare il buio e intraprendere un nuovo inizio, nonostante il suo drammatico passato pesi sulla sua schiena, ormai consumata, come un macigno. A causa di impegni lavorativi dei Michieli, nel 1887 è affidata all’Istituto dei Catecumeni in Venezia gestito dalle Figlie della Carità, le Canossiane, con cui avviò il suo cammino religioso.
Giuseppina, per la prima volta, non è più “cosa” di nessuno, non deve più essere al servizio della crudeltà umana. Ora Giuseppina Bakhita è al servizio di Dio. Entra in contatto con le popolazioni italiane del Veneto che apprezzano la pacatezza dei modi, la gentilezza del volto e la bontà d’animo di quell’insolita suora di colore. Ne scoprono e ne comprendono, però, anche il coraggio di riscatto, la forza di rivincita che la fede di Dio e la carità verso il prossimo le permettono di mettere in atto.
Dagli abitanti locali fu chiamata “Madre Moreta”. Nel 1915 e negli anni successivi Madre Moreta è esempio di aiuto, carisma e conversione per tutte le donne e i deboli che stanno subendo l’incombere della Prima Guerra Mondiale. Chi meglio di Bakhita poteva conoscere sentimenti di oppressione, paura, rancore che facevano già parte dell’esperienza di vita di una donna abituata al rumore piuttosto che alla quiete, al dolore piuttosto che alla gioia e alla sottomissione piuttosto che alla libertà. Giuseppina Bakhita muore l’8 febbraio del 1947, dopo essere diventata una vera e propria icona in Italia e nel resto del mondo, lasciando ai posteri il modello di una donna il cui destino le aveva donato la fortuna di reagire e il merito di aver dedicato la sua vita agli altri.
In una delle sue numerose interviste Madre Moreta disse: “Se incontrassi quei negrieri che mi hanno rapita e anche quelli che mi hanno torturata, mi inginocchierei a baciare le loro mani, perché se non fosse accaduto ciò, non avrei avuto la fortuna di conoscere Dio”. Non a caso il nome Bakhita in arabo significa “fortunata”. Un eroe dimenticato, sopravvissuta alla tratta degli esseri umani e perfetta testimonianza di come l’accoglienza degli immigrati e il rispetto della loro dignità possano giovare a un Paese che sceglie la linea dell’integrazione. Tutto ciò garantendo il riconoscimento dei diritti fondamentali a chi partecipa attivamente alla vita economica, pubblica, politica e religiosa della comunità in cui vive, in quanto i benefici della libertà e quelli sociali sono stati concepiti come diritti della persona e non correlabili unicamente allo status di cittadino.