I cento anni del Milite Ignoto
di Giovanni Ricci
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Il 4 Novembre di quest'anno sono stati celebrati i 100 anni dall'arrivo presso l'Altare della Patria del Milite Ignoto[1].
Oggi, nell'Italia della Repubblica e del XXI secolo, siamo chiamati a celebrare questo giorno la cui eco sembra arrivare da lontano, da un mondo quasi mitico e quindi, per molti, privo di fondamento. Gli unici cannoni presenti a Cortina, per la nostra generazione, sono quelli che sputano neve nelle settimane bianche di chi se le può permettere. Ormai Trieste è italiana e i dubbi su questo stato vengono riposti a loro volta, nonostante più giovani rispetto a quelli legati alla Grande Guerra, nei contenitori del passato. Difficilmente, nel nostro tempo, un evento agghiacciante come quello di una guerra accenderebbe l'entusiasmo delle piazze, l'ingegno di cantanti e la speranza di morire sul campo di battaglia. E menomale, possiamo dire.
Eppure, qualcosa di simile fra quel 4 novembre del 1921 ed oggi c'è.
Cantare[2] in contingenze devastanti, ad esempio, può sembrare assurdo, ma è un qualcosa che abbiamo fatto anche noi qualche tempo fa, in un momento nel quale l'Italia ricopriva la morte e il sacrificio. Cantare, esporre il Tricolore sul balcone o ringraziare pubblicamente medici ed infermieri, poco serviva ad aiutare chi soffocava in corsia nel panico nei primi giorni della pandemia (sia se malato, sia se oberato dal lavoro), ma era utile a farci sentite meno soli e più uniti di fronte ad una sciagura. Il canto non risolve dubbi o errori (entrare in guerra o tagliare sulla sanità, ad esempio), serve a superare la tempesta. E quegli atteggiamenti erano un po’ il nostro Servizio P[3] dove a “Propaganda” poteva essere sostituito da “Pandemia”.
Sebbene ridimensionata e in altre forme, l'idiozia di chi celebra o minimizza la morte continua ad avere un suo peso anche oggi. Chi il 24 maggio si abbandona ad autoerotismo sanguinario alla Marinetti, come se le pagine dell'Acerba fossero state un gioioso impulso ad un massacro romantico e vitale, merita una giornata sotto gli ordini di Cadorna[4]. Merita sentire il puzzo delle carogne, il freddo e il gas del Monte San Michele[5]. Merita di provare il terrore per mezzo secondo, il necessario per ripudiarlo una vita. Ed è fondamentale ribadire che non ci può̀ essere spazio in questa Italia e in questa Europa per quelle forme di nazionalismo. Eppure, lo spazio per il “partito della morte”, per il riduttivismo relativo al valore della vita umana esiste anche nell’Italia di oggi, quella dei no-vax e degli aperturisti con 1000 morti al giorno.
Ma se abbiamo riscoperto cosa vuol dire trovarsi al centro di una tempesta; allora abbiamo riscoperto che in tali contingenze lo spazio per l’idiozia va restringendosi e tutto si gioca sulla capacità di una comunità di attivarsi per evitare di soccombere. È questo bisogno, questa necessità impulsiva e collettiva che porta gli esseri umani a sacrificarsi e a resistere. È questo che ha portato alcuni soldati a rimanere un fatale momento in più per coprire la ritirata (o la rotta) dei propri connazionali durante la guerra. Ed è molto simile al senso del dovere che ha portato medici a rimanere un turno in più in ospedale, nel bel mezzo della pandemia, per poi ammalarsi e perire a beneficio della collettività̀.
E quando in Italia è arrivata quella che pareva una cosa simile ad un epilogo, la prime fiale di vaccino contro il Covid-19, L'Italia non se n'è neanche resa conto, ma nel dirigere l'attenzione e le speranze in quel convoglio che scendeva il paese è stata molto simile a quella di cento anni fa[6].
Noi non siamo chiamati oggi a celebrare l'inutile strage[7] del secolo scorso, ma siamo chiamati a rendere omaggio a chi, in qualche modo, si è sacrificato per la propria comunità̀, la propria terra.
Nel libro "Un anno sull'Altipiano" di Emilio Lussu, un tenente innervosito dalla retorica monarchica per darsi forza senza venire meno alle sue convinzioni repubblicane, scatta al grido di 'Viva l'Italia'. Anche noi lo facciamo, in frangenti sicuramente meno tragici.
Senza cadere in vuoto e pericoloso nazionalismo, senza perdere spirito critico (e forse, alimentandolo), ci sono oggi milioni di persone che si dedicano all'Italia, con o senza divisa.
Ricordare la storia del Milite Ignoto non significa necessariamente celebrare la folle politica di Sonnino relativa ai propri prigionieri[8], né esaltare nuovamente ciò che di quel mondo non può essere più esaltato: guerre igieniche, nazionalismo indigeribile, militarismo capace di soffocare la società̀[9].
Celebrare questa giornata rinfresca la memoria e ci può aiutare ad evitare di infrangere gli sforzi con tremendi errori dopo l’uragano, proprio come avvenne dopo la guerra con l’avvento del fascismo. Ricordare il Milite Ignoto è rendere omaggio a chi ha compiuto qualcosa per noi, delle volte con eroismo, delle volte controvoglia, ma in qualsiasi caso, nella speranza che potesse servire a noi, il loro futuro. Nel canto "Era una notte che pioveva", nato proprio fra gli alpini impegnati nella prima guerra mondiale, è abbastanza chiaro; fra le fatiche della sentinella si annida il desiderio di rivedere la propria bella. Forse anche loro non volevano essere lì, eppure si facevano forza per portare a termine un enorme sforzo collettivo. Celebrare questa giornata è ricordare l'umanità di chi non c'è più, tanto le speranze quanto le sofferenze. Non vale solo per noi, ma per chi era dall'altra parte: Lo prova il cordoglio franco-tedesco di Verdun o le cerimonie che vedono fanti con divise italiane e austro-ungariche sulle Alpi quando vengono trovati nuovi resti. Quell'orrore è fuori discussione.
Nel leggere 'unser elders' (i nostri eroi) in un paesino della Ruhr, su una stele simile a quella dei nostri comuni è facile capire che quel ‘nostri', anche in una patria vinta, non avrebbe potuto essere diverso.
Loro come i nostri meritano la nostra memoria e nei limiti della ragione, della contestualizzazione storica e della nostra umanità anche la nostra stima. Non è necessario odiare gli austriaci per rendere omaggio a chi è morto nella carneficina mondiale, né essere dei volgari fascisti. È importante ricordare affinché non sia più necessaria tanta sofferenza.
Siamo molto diversi, noi italiani di oggi e loro italiani di ieri. Eppure, ricordare quello sforzo, quella prima Resistenza dopo Caporetto, è utile per guardarci allo specchio, capire quanti passi in avanti sono stati fatti, quanto sia semplice farne di sbagliati, quanto sia importante puntare i piedi quando è necessario resistere.
Note
[1] Il 4 Novembre 1921 il Milite Ignoto giunge a Roma. A partire dal 1920 le autorità italiane si impegnarono nel recupero di undici salme di soldati italiani caduti in combattimento durante la guerra provenienti da undici campi di battaglia distinti. Riunite nella basilica di Aquileia, la madre di un disperso triestino fu chiamata a scegliere, fra undici feretri, quello che avrebbe rappresentato tutti i figli d’Italia caduti. Solennemente, fu tumulato presso l’Altare della Patria, ove riposa tutt’oggi.
[2] Riferimento alla Canzone del Piave, canto patriottico ad opera di E.A. Mario. Intento dell’opera fu quello di alzare il morale della nazione nelle ultime fasi della guerra, intento riuscito se si considerano gli elogi delle autorità all’autore e lo spazio che questa continua ad avere nell’immaginario collettivo. Nel testo, nonostante alcune inesattezze storiche, vengono ricordate l’entrata in guerra, la disfatta di Caporetto, la battaglia del solstizio e la vittoria finale.
[3] Il “Servizio P” fu una organizzazione interna al Regio Esercito volta a migliorare le condizioni morali e materiali delle truppe al fronte. Costituito dopo la disfatta di Caporetto, mobilitò migliaia di intellettuali e animatori dell’Italia dell’epoca, sviluppò importanti iniziative (giornali di trincea, case del soldato) e diede un impulso formidabile al miglioramento della gestione politica dell’esercito contribuendo alla vittoria finale.
[4] Il generale Cadorna fu capo di Stato maggiore dell’esercito fino alla disfatta di Caporetto. La sua anzianità e il suo carattere rigido e poco innovativo lo portarono in diversi momenti a errori di tipo tattico e strategico. Riservava una bassissima attenzione non solo alle informazioni provenienti dall’intelligence, ma anche alla dimensione umana delle sue truppe, al punto di addossare loro ingiustamente le colpe della disfatta del 1917.
[5] Primo teatro di impiego sul fronte italiano di gas asfissianti da parte delle truppe austro-ungariche.
[6] L’analogia si riferisce alla solenne traslazione in treno, da Aquileia a Roma, del feretro del Milite Ignoto. Il Ministero della Difesa ha celebrato il centenario dell’evento ripercorrendo il viaggio e ricordando le occasioni di omaggio e commemorazione del 1921.
[7] Locuzione utilizzata da Benedetto XV in una lettera ai belligeranti nel 1917.
[8] Solo negli anni Novanta è stato possibile avere un quadro più dettagliato delle sorti dei prigionieri italiani della Prima guerra mondiale. Mentre Germania e Francia permettevano l’invio di provviste ai rispettivi prigionieri tramite
[9] In Italia più che altrove il governo fece ricorso alla censura e alla soppressione delle libertà sindacali.
Bibliografia
- Mario Isnenghi e Giorgio Rochat, La Grande Guerra 1914 - 1918, Il Mulino, ed IV, 2014
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Emilio Lussu, Un anno sull’Altipiano, 1938, Einaudi, ed II, 2014
Immagine: 4 Novembre 2021