Sicurezza “Senza Limiti”
di Leonardo Paglia
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Garantire la sicurezza dalle minacce interne costituisce una delle principali prerogative di uno Stato. Quando un individuo sceglie di rinunciare a una delle libertà fondamentali, quella relativa all'uso della violenza, e la affida allo Stato, è naturale e doveroso pretendere che tale rinuncia sia ripagata con la tutela della sicurezza personale. Tuttavia, alcuni regimi politici travalicano il sottile confine che separa la sicurezza dall'oppressione
Fino a che punto uno stato può spingersi nella sottrazione delle libertà civili in nome della sicurezza interna? Come reagiscono i diversi tipi di regime a questo bisogno?
Se è indubbio che i regimi autoritari commettono regolari violazioni dei diritti civili e politici per assicurarsi la sopravvivenza, la Cina è tra i paesi che ha adottato le politiche più restrittive e invasive, sfruttando – soprattutto negli ultimi anni – lo sviluppo tecnologico. Da anni ormai la quotidianità dei cittadini cinesi, come anche di coloro che vivono in paesi che hanno adottato tecnologie di matrice cinese (dall’Ecuador al Kirghizistan), è profondamente alterata dalla sorveglianza digitale. Questo fenomeno, oltre a minare il concetto stesso di libertà personale, rappresenta una grandissima sfida per le democrazie liberali, poiché l’ecosistema tecnologico “made in China” non si limita soltanto ad esportare prodotti: la capacità di Pechino di coniugare controllo sociale ed efficienza rende particolarmente allettanti quei valori tipici delle autocrazie che ne garantiscono la sopravvivenza. Non sorprende, dunque, che già nel 2019 diciotto paesi, attratti dall’efficacia e dai costi contenuti, impiegavano tecnologie di sorveglianza cinesi.
Proviamo ora a delineare un breve quadro delle principali tecnologie di sorveglianza, che negli ultimi vent’anni hanno conosciuto un’evoluzione significativa. Già all’inizio del millennio, il governo cinese investiva ingenti somme di denaro in progetti come il Golden Shield (grande firewall) per la censura di Internet. Dopo pochi anni abbiamo assistito all’impiego di programmi per il monitoraggio tramite riconoscimento facciale, come ad esempio Skynet. Nel 2015 il Ministero della Pubblica Sicurezza cinese ha lanciato un sistema capace di identificare in pochi secondi qualsiasi cittadino tra 1,4 miliardi di persone con un’accuratezza del 90 percento connettendo le reti di telecamere a vasti centri dati cloud. Nel 2019 è stata lanciata l’app “Study Xi, Strong Nation” (Xuexi Qiangguo), che obbliga migliaia di quadri del PCC a studiare il Pensiero di Xi Jinping attraverso quiz quotidiani, tracciando i punteggi realizzati e perfino la loro posizione GPS per verificare che svolgano diligentemente le attività di indottrinamento loro assegnate. Queste imponenti – e per molti aspetti orwelliane – macchine di sorveglianza sono impiegate dalla polizia cinese, che raccoglie una mole straordinaria di dati su ogni individuo. Tale apparato permette di rilevare preventivamente comportamenti ritenuti indiziari di dissenso o attribuibili a soggetti classificati come “elementi di disturbo”.
Emblematico, nonché più estremo, il caso dello Xinjiang, dove un sistema di sorveglianza onnipervasivo, che comprende app mobili, riconoscimento biometrico facciale, intelligenza artificiale e analisi dei big data, tiene sotto controllo circa 13 milioni di musulmani turcofoni.
Conducendo una raccolta di massa di dati biometrici, tra cui campioni di voce e DNA, e utilizzando telecamere dotate di AI per identificare, classificare e tracciare gli individui, le autorità sorvegliano gli Uiguri in ogni loro movimento.
La conseguenza? L’arresto e la detenzione a fini “rieducativi” di almeno un milione di persone. Dispositivi come questi, sempre più presenti in ogni ambito della quotidianità cinese, lavorano senza sosta, correlando targhe automobilistiche ai volti dei guidatori e mappando ogni attività dei cittadini, strada per strada, telefono per telefono. Lo Xinjiang è diventato così “un laboratorio per testare tecnologie di big data, riconoscimento facciale e scannerizzazione degli smartphone che potranno essere dispiegate in tutta la Cina e oltre” (Walker et.al. 2020).
Tuttavia, come facilmente intuibile, la sorveglianza di Stato in Cina non si limita solo alle regioni periferiche e alle minoranze, ma insidia e pervade il tessuto sociale nella sua interezza, evolvendo in direzione di un controllo sempre più automatizzato e “intelligente” della popolazione. Pilastro di questo sistema è il dibattutissimo credito sociale: un insieme di sistemi di valutazione digitale del comportamento dei cittadini, volto a premiarne o punirne le azioni quotidiane in base a criteri di “affidabilità” stabiliti dallo Stato. La finalità è dunque quella di assegnare a ciascun individuo un punteggio sociale (social score). Le punizioni per chi ottiene un punteggio basso possono essere definite draconiane: divieto di acquistare biglietti aerei e ferroviari, preclusione dall’accesso a hotel, scuole prestigiose, impieghi pubblici e altri servizi. Questo sistema, descritto dai critici come una potente arma di sorveglianza e repressione, è stato già utilizzato per tracciare e colpire attivisti politici e avvocati per i diritti umani scomodi al regime.
Ma la sfida più grande che i valori democratico-liberali dovranno affrontare nei prossimi anni non risiede nell'efficienza di questi sistemi, ma nei sondaggi condotti sulla popolazione: numerose ricerche suggeriscono che la maggior parte dei cittadini cinesi supportano tali misure, in quanto utili al mantenimento dell’ordine sociale, non considerando (o più probabilmente non concependo affatto) la natura repressiva di quest’ultime, occultata egregiamente dalla propaganda statale. La popolazione cinese si è dunque dimostrata disposta a sacrificare ampie quote di libertà individuale in nome di un presunto “bene superiore”, confidando nella capacità del Partito-Stato di guidarla verso un futuro di stabilità e progresso.
Quanto è concreto il rischio che una simile visione si diffonda nelle società democratiche? Le tendenze autoritarie registrate in tutto il mondo negli ultimi anni sono forse anche indicatori di una potenziale apertura dell’opinione pubblica occidentale verso questo tipo di pratiche repressive? L’unica cosa certa è che con l’avvento della terza rivoluzione industriale le democrazie liberali, già in crisi, dovranno affrontare sfide capaci di minarne l’esistenza stessa.
Bibliografia
- Gravett W. H. (2020). Digital Coloniser? China and Artificial Intelligence in Africa. Verfassungsblog.
https://verfassungsblog.de/digital-coloniser/ - -Walker C., Kalathil S., & Ludwig J. (2020). The Cutting Edge of Sharp Power. Journal of Democracy.
https://www.journalofdemocracy.org/articles/the-cutting-edge-of-sharp-power/ - -Wang M. (2021). China’s Techno-Authoritarianism Has Gone Global: Washington Needs to Offer an Alternative. Foreign Affairs.
https://www.foreignaffairs.com/articles/china/2021-04-08/chinas-techno-authoritarianism-has-gone-global - -Xu X., Kostka G., & Cao X. (2022). Information Control and Public Support for Social Credit Systems in China. The Journal of Politics.
https://www.journals.uchicago.edu/doi/10.1086/718358
Immagine: Senza licenza di utilizzo, creato con l’IA